LOVE EATS THE SOUL: JAN PHILIPPE CARPIO’S HILO AND BALAY DAKU

LOVE EATS THE SOUL: JAN PHILIPPE CARPIO’S HILO AND BALAY DAKU

Balay Daku (2007)

per : Narda Liotine

Uno dei modi migliori per indagare le relazioni interpersonali è analizzare i pasti. Evitando quelli solitari, frugali e scomposti, preferiamo quelli affollati e i tête-à-tête. Il regista surrealista ceco Jan Svankmajer -dal seminale Dimensioni del dialogo (Možnosti dialogu, 1982) passando per il più recente Meat Love (1989) – ci insegna che consumare un pasto in compagnia può portare a scontri e contrasti. Nella sua riflessione artistica i tavoli da pranzo e le stoviglie sono creati per generare tanto l’armonia quanto il  caos, ritenendo il primo come una possibile conseguenza del secondo.

Il tavolo da pranzo non è solo un posto per la tranquillità e la condivisione e il regista filippino Jan Philippe Carpio lo sa bene a tal punto da adottare la ‘formula del pasto’ come modalità preferita per la narrazione delle storie e la raffigurazione dei conflitti interpersonali. Non deve infatti lasciare perplessi se la camera non si eclissa mai dal desco ma rimane fissa su di esso fino a che il pasto non è concluso o fino a che il conflitto sia scoppiato.

Balay Daku, un lungometraggio di circa tre ore, e per certi versi un film semi-autobiografico che mette in scena la storia di Julio, un uomo originario di Bacalod che vive a Manila, sposato con Stella. Se si è a conoscenza di qualche nota personale della biografia del regista si dedurrà subito che quest’aspetto ricalca le sue origini e andando avanti nella narrazione si scoprirà un’altra connessione, quella con il campo di canna da zucchero a Bacalod. Nel momento in cui questi trait d’union ci vengono svelati si comprende bene che il regista ci sta portando in posti comuni e universali, dove sostare e confortevole anche se si trovano a  chilometri di distanza. L’apertura del film è affidata ad pranzo, per l’appunto, quello in cui si fa il punto della situazione e si svelano i desideri ed i progetti; il dialogo scorre naturale come si trattasse di una vera schermaglia amorosa mentre la camera indugia alle spalle e a fianco dei protagonisti. Genuinamente la scena ci conduce al proseguo della storia che cambia scenario, Bacalod, e moltiplica le interazioni umane. La dolcezza e la complicità che caratterizzavano la prima scena sono messe in crisi dallo spaesamento della protagonista, Stella, e dal ritorno alle origini a lungo negate di Julio. Mentre la storia si dipana e ci mostra aspetti nuovi, le incrinature e la loro ricomposizione avvengono proprio a tavola. Rispetto a quello d’apertura questo banchetto è più affollato e sontuoso, ma come nel primo anche in questo la dialettica sovrasta l’importanza primaria e la funzione sociale del momento. Il cibo divide e riunisce? Veicola i sentimenti e accompagna le relazioni nelle loro varie fasi. Non a caso Stella tenta il riavvicinamento con la suocera preparando il suo piatto preferito, il Laswa, una zuppa di verdure tipica ilonggo. Antipodico rispetto a questo è il pasto frugale più disteso e amichevole che Lor e Stella consumano sedute in cucina; significativamente Lor non usa le posate mangiando con voracità. Il senso è quello dell’intimità femminile e della confidenza. Il pasto e talmente fondamentale nell’economia di Balay Daku che possiamo ritenerlo il termometro di questa storia, dal principio sino all’epilogo risolutore.

Hilo (2002)

La formula del pasto trova la sua piena analisi in Hilo, quello che si potrebbe definire come un vero e proprio studio del desinare. Attraverso tre ricostruzioni diverse – ‘ tre differenti possibilità emozionali di questo incidente in una relazione’ citando lo stesso regista-  questo film riporta il medesimo canovaccio.  In un dialogo messo in crisi dall’incomunicabilità e dal risentimento, il disagio e l’insoddisfazione si palesano nelle interruzioni, nel tentativo maniacale di correggere il sapore della pietanza , aggiungendoci sale, pepe e formaggio sforzandosi di soddisfare quanto più possibile il commensale mentre la distanza e il contrasto fra i due cresce. In Hilo l’ insofferenza permane e l’attenzione cade, oltre che sulla pietanza da perfezionare, sui bicchieri diversi a tavola che monopolizzano l’attenzione della donna, smarrita in questa nuova ossessione e resa sempre più insicura. L’atteggiamento è quello tipico della pressione emotiva, lo stesso che uno tra i registi ispiratori dello stesso Carpio mise in scena sulla pelle di Gene Rowlands in Woman under the influence. In quell’occasione, racconta lo stesso Carpio, la protagonista non avrebbe dovuto emettere versi sconnessi, ma la ‘matematica della recitazione’ aveva preso il sopravvento e, nonostante non fosse in copione, lo stress di Mabel-Gene Rowlands doveva scoppiare a quel modo e prendere quell’aspetto. Così nell’ultima versione, in quella più compiuta, in bianco e nero rispetto alle precedenti, è rappresentata una variazione notevole ed una scelta di stile che sembra preannunciare lo sviluppo pieno ed intimo insieme del tema. Se con pochi mutamenti si erano svolte le precedenti letture, in questa si vira subito dal leitmotiv è la fissità della scena a tavola s’infrange. Lo spostamento in cucina e poi nell’ingresso rompono la composizione da macchina fissa dei primi due momenti. Lo sconvolgimento emotivo si fa totale negli attori che prendono interiorizzano la storia e la elaborano in un climax che stravolge lo script. Il Caos si è sostanziato, l’ incrinatura si è fatta netta e ha coinvolto dinamicamente i personaggi.

Bere mangiare e chiacchierare. Litigare, fare l’amore e dormire. Queste sono le situazioni quotidiane che Carpio ama rappresentare e che conferiscono ai suoi film un grado di realismo e di unicità rispetto al panorama cinematografico contemporaneo. Sembra quasi che il regista persegua, nei documentari come nella finzione- la via della verità, l’essenza della vita in movimento che spesso sfugge alla narrazione del cinema di mainstream in luogo di una realtà infedele e fallace.

Il cinema contemporaneo emergente esprime questo inevitabilità del ritorno alla realtà dopo un lungo periodo trascorso altrove.